Buoni pasto: cosa sono e come funzionano

I buoni pasto rappresentano senza alcun dubbio una grande opportunità nel panorama del welfare aziendale: offrono vantaggi sia per chi li eroga, sia per chi ne fruisce. Nello specifico, i buoni pasto non sono altro che ticket che le imprese distribuiscono ai propri collaboratori, per acquistare pranzi o generi alimentari. La loro versatilità è straordinaria: si possono utilizzare in un’ampia gamma di esercizi convenzionati, dai ristoranti ai bar, passando per supermercati e negozi di alimentari. Ma il loro valore non risiede nell’aspetto economico: i buoni pasto sono un gesto tangibile con cui le aziende si prendono cura del benessere dei propri dipendenti, garantiscono la possibilità di consumare un pasto adeguato durante la giornata lavorativa, con ripercussioni positive sulla salute, la soddisfazione e, perché no, sulla produttività del personale.  Per i reparti HR, ad esempio, questi ticket sono una vera e propria pepita d’oro nel pacchetto di benefit offerti. Possono fare la differenza nel coinvolgere e trattenere i talenti migliori, dimostrando quanto l’azienda sia attenta alle esigenze quotidiane del proprio staff: un dettaglio che non passa inosservato. Il quadro normativo dei buoni pasto in Italia In Italia esiste una normativa specifica che delinea caratteristiche e modalità d’uso.  Un aspetto cruciale della normativa è il trattamento fiscale. Ad oggi, i buoni pasto cartacei godono di esenzione fiscale fino a 4 euro al giorno, mentre per quelli elettronici il tetto si alza a 8 euro. Questo significa che, entro questi limiti, il valore dei buoni non si va a sommare al reddito imponibile del dipendente: un doppio vantaggio, sia per il lavoratore che per l’azienda. Attenzione però: i buoni pasto non sono parte della retribuzione. Cosa significa? Non influiscono sul calcolo del TFR e non sono soggetti a contributi previdenziali. Devono essere erogati in aggiunta allo stipendio, non in sostituzione. Importante anche sapere che: Vantaggi per le aziende Vantaggi per i dipendenti Come implementare un sistema di buoni pasto nella propria azienda L’implementazione di un sistema di buoni pasto non è una passeggiata. Per prima cosa è fondamentale partire dall’analisi delle esigenze e delle necessità dei propri dipendenti e dell’azienda. Concentrandosi su fattori come: il numero di dipendenti, la loro distribuzione geografica e le abitudini lavorative (es: smart working vs. lavoro in ufficio).  Successivamente è importante svolgere un lavoro di ricerca della società che emette buoni pasto maggiormente in linea con le suddette esigenze e allineata alle aspettative in termini di costi, rete di esercizi convenzionati, servizio clienti e soluzioni tecnologiche offerte.  Successivamente si procede con la definizione dell’importo del buono pasto, la comunicazione ai dipendenti e la formazione del team HR sulla gestione dei buoni pasto in termini di aspetti normativi e fiscali. Le ultime fasi sono il monitoraggio e la valutazione del sistema implementato: tenete d’occhio regolarmente il suo utilizzo e raccogliete feedback dai dipendenti per eventuali miglioramenti. Gestione digitale dei buoni pasto: soluzioni HR moderne Nell’era della digitalizzazione, la gestione dei buoni pasto sta vivendo una vera e propria rivoluzione: le soluzioni HR moderne offrono strumenti sempre più sofisticati per semplificare e ottimizzare questo processo. Ecco alcune delle attuali tendenze: I buoni pasto non sono solo un mezzo per comprare il pranzo. Sono un tassello fondamentale nella strategia di welfare aziendale, con un impatto notevole sul benessere dei dipendenti e sull’efficienza organizzativa. L’introduzione o l’ottimizzazione di un sistema di buoni pasto può portare a dipendenti più soddisfatti, work-life balance migliorato e cultura aziendale positiva: l’attenzione al benessere dei dipendenti si riflette in una cultura aziendale più inclusiva e attenta alle persone. In un mondo del lavoro in rapida evoluzione, questi strumenti, se gestiti con intelligenza e visione, possono fare la differenza nel creare ambienti di lavoro più sani, produttivi e soddisfacenti per tutti.

Quiet quitting: cos’è

Negli ultimi anni, il concetto di “quiet quitting” ha guadagnato attenzione nel mondo del lavoro. Questa pratica, che coinvolge i dipendenti che scelgono di non andare oltre le loro responsabilità minime, riflette una risposta alle crescenti pressioni lavorative e alla necessità di mantenere un equilibrio tra vita professionale e personale.  Mentre alcune persone vedono il quiet quitting come un modo per proteggere la propria salute mentale, altre lo interpretano come un sintomo di disconnessione e insoddisfazione sul posto di lavoro.  Ma in cosa consiste più nello specifico e quali sono le caratteristiche che rendono questo fenomeno sempre più un problema per dipendenti e aziende? Quiet quitting: definizione e significato Con l’espressione “quiet quitting”, traducibile in italiano come “dimissioni silenziose”, si intende un atteggiamento lavorativo in cui i dipendenti si limitano al lavoro minimo indispensabile richiesto dal loro ruolo, senza cercare di andare oltre le aspettative o impegnarsi in attività extra, funzionali al miglioramento dell’azienda.  Questo fenomeno è spesso una risposta a condizioni lavorative stressanti, mancanza di riconoscimento, e squilibrio tra vita lavorativa e personale.  Quiet quitting: caratteristiche e come funziona Il fenomeno del quiet quitting si manifesta in diverse forme. Come anticipato, i dipendenti che lo praticano tendono a fare il minimo indispensabile, rifiutando incarichi supplementari, evitando riunioni non necessarie e limitando le comunicazioni al di fuori dell’orario di lavoro. Senza cercare avanzamenti di carriera o riconoscimenti, le persone che lo adottano si dedicano esclusivamente al soddisfacimento delle loro responsabilità di base. Diversi sono i segnali che rendono evidente la presenza di questo fenomeno, come la partecipazione passiva al lavoro, il disimpegno cronico, l’isolamento dagli altri membri del team e l’aumento del carico di lavoro degli altri membri del team. Le cause di questo comportamento sono numerose, ma possono essere raggruppate in tre categorie principali: Per i datori di lavoro il quiet quitting presenta un duplice problema. Da un lato, la produttività complessiva dell’azienda ne risente, poiché la minor motivazione dei dipendenti allunga i tempi di completamento dei progetti, aumentando i costi e complicando la pianificazione.  Dall’altro, sul piano umano, il quiet quitting incide inevitabilmente sul morale generale. In un contesto in cui molti dipendenti adottano questa pratica, è probabile che altri seguano il loro esempio, creando, di fatto, un ambiente di lavoro poco piacevole. Quiet quitting: come evitarlo da parte delle aziende In relazione al quiet quitting, la riduzione della produttività e della motivazione da parte dei dipendenti può influire negativamente sui progetti aziendali, ma spesso non al punto da giustificare il licenziamento, in quanto i compiti minimi vengono comunque svolti.  Dunque come può un’azienda prevenire questo fenomeno tra i suoi lavoratori? Una soluzione sempre più adottata è lo smart working, che consente ai dipendenti di svolgere il proprio lavoro in modo flessibile e da remoto, mantenendoli attivamente impegnati e coinvolti nelle proprie attività lavorative. Tuttavia, lo smart working non è sempre applicabile, specialmente in contesti che richiedono la presenza fisica.  Per questo motivo, le aziende necessitano l’implementazione di altre strategie che supportino e motivino i dipendenti nelle loro attività lavorative.  Le strategie aziendali più efficaci includono tre elementi chiave: Se sei un’azienda che desidera evitare l’emergere del quiet quitting, considera di implementare questi elementi per promuovere una maggiore collaborazione, una chiara definizione dei ruoli e una formazione efficace.  Creare un contesto lavorativo ottimale, dove tutti si sentono valorizzati, non solo migliora la produttività aziendale, ma rappresenta un vantaggio concreto per la gestione delle risorse umane e favorisce il benessere personale dei dipendenti.

Che cos’è e a cosa serve la Certificazione Unica

In Italia, la Certificazione Unica (CU) rappresenta un elemento cruciale sia per i datori di lavoro che per i contribuenti, con la quale vengono certificati i redditi da lavoro dipendente e alcune categorie di lavoro assimilato al lavoro dipendente.  Conosciuta in passato come modello CUD, questa dichiarazione con gli anni ha subito diversi importanti cambiamenti per facilitare la gestione delle informazioni di natura fiscale.  La lettura dei paragrafi seguenti aiuterà a capire nel dettaglio cos’è, a cosa serve e perché è così importante la Certificazione Unica per i datori di lavoro e per i contribuenti. Certificazione Unica: cos’è In ambito fiscale, la Certificazione Unica costituisce uno degli adempimenti più importanti in capo ai datori di lavoro o agli enti pensionistici, mentre per i pensionati e i lavoratori rappresenta la fonte principale per la presentazione della dichiarazione dei redditi annuale. La competenza dell’emissione e della trasmissione della Certificazione Unica spetta ai soggetti che hanno effettuato i pagamenti: datori di lavoro (sostituti d’imposta) per i lavoratori dipendenti e INPS per i pensionati. Il modello CU va inviato all’Agenzia delle Entrate esclusivamente in modalità telematica e consegnato ai lavoratori, entro i termini previsti, per attestare i redditi da lavoro dipendente assimilati e corrisposti dai datori di lavoro durante il periodo d’imposta di riferimento. Rispetto al vecchio modello CUD, la Certificazione Unica include una gamma più ampia di compensi e redditi, facilitando la dichiarazione dei redditi e ottimizzando la gestione delle informazioni fiscali. Certificazione Unica: a cosa serve La Certificazione Unica ricopre quindi un ruolo determinante ai fini fiscali, attestando una fotografia completa dei redditi percepiti dai lavoratori nel periodo d’imposta di riferimento.  Questo strumento, non solo certifica i redditi da lavoro dipendente, ma anche i compensi derivanti da collaborazioni coordinate e continuative, redditi diversi e redditi di capitale. Il fine primario del modello CU è dotare i contribuenti di un quadro completo dei loro guadagni percepiti nel periodo d’imposta di riferimento: per i lavoratori dipendenti è particolarmente importante perché le relative informazioni sono essenziali per compilare il modello 730, utile per il calcolo dei redditi complessivi e indispensabile per determinare le imposte dovute. Ogni anno, per legge, i sostituti d’imposta devono rilasciare la Certificazione Unica a coloro che hanno percepito redditi: come anticipato, i datori di lavoro consegnano il modello CU ai propri dipendenti, mentre l’INPS lo consegna ai pensionati e a tutti i titolari di prestazioni (esempio: NASPI). La mancata consegna della CU a un lavoratore dipendente costituisce una grave violazione e impedisce all’interessato di presentare correttamente la dichiarazione dei redditi. Competenza alla compilazione e al rilascio La competenza della compilazione della Certificazione Unica spetta ai sostituti d’imposta: datori di lavoro o enti pagatori. Tali soggetti hanno l’obbligo di fornire la Certificazione Unica ai percettori di redditi soggetti a tassazione.  Entro la scadenza annuale stabilita per legge, i lavoratori dipendenti riceveranno quindi la CU dai loro datori di lavoro. Parimenti, entro lo stesso termine, l’INPS renderà disponibile la Certificazione Unica per i pensionati, i beneficiari della cassa integrazione e della NASPI.  Nel caso in cui un contribuente riscontri che le informazioni riportate nella CU non siano esatte, è tenuto a darne immediata comunicazione al proprio datore di lavoro per la relativa correzione all’Agenzia delle Entrate. Questo è un passaggio fondamentale per non correre il serio rischio di compromettere la correttezza della dichiarazione dei redditi. Certificazione Unica: informazioni contenute La Certificazione Unica riporta delle precise notizie, tra le quali il reddito complessivo dei contribuenti, le ritenute applicate, i contributi previdenziali versati e altri dati utili per determinare il reddito fiscale. Nella prima sezione della certificazione sono indicati i dati anagrafici del contribuente, mentre nella seconda sono riportate le informazioni fiscali (redditi erogati, detrazioni). Più nello specifico, la compilazione della Certificazione Unica presuppone la corretta raccolta di tutte le notizie legate ai redditi percepiti dagli interessati: Una volta completata la Certificazione Unica con l’indicazione di ogni dato richiesto, i sostituti d’imposta hanno l’obbligo di consegnarla, entro il termine annuale previsto, a ciascun lavoratore dipendente. La CU può essere consegnata ai dipendenti sia in modalità telematica che in modalità cartacea. Il rispetto della consegna entro la scadenza stabilita è un aspetto cruciale, in quanto permette al contribuente di disporre tempestivamente dei documenti utili per la dichiarazione dei redditi e non incorrere in ritardi ed eventuali pesanti sanzioni. In conclusione, la Certificazione Unica non è solo un obbligo burocratico, ma un pilastro del sistema fiscale che garantisce trasparenza, efficienza e conformità alle normative vigenti, contribuendo a un rapporto più chiaro e corretto tra contribuenti e amministrazione fiscale.

Reclutamento interno: che cos’è e quali sono i vantaggi

Il reclutamento interno è una grande opportunità in ambito aziendale perché consiste nel trasferire o promuovere verso nuovi ruoli i lavoratori già in organico. Una pratica abbastanza diffusa per valorizzare al meglio le competenze e le esperienze delle risorse umane presenti in azienda. Ma in cosa consiste e quali sono i vantaggi del reclutamento interno? Reclutamento interno: cos’è In concreto, il reclutamento interno consiste nella promozione ai posti da coprire di dipendenti già occupati in azienda. Il reclutamento di nuovo personale sul mercato del lavoro – per quanto necessario – rappresenta una pratica dispendiosa e non sempre produttiva per un’azienda: bisogna cercare il profilo giusto, selezionarlo tra una rosa di candidati e quindi procedere al suo inserimento. Selezionando dipendenti direttamente all’interno della struttura organizzativa, vale a dire lavoratori dei quali conosci bene competenze ed esperienze e con i quali è già ben avviato un rapporto di reciproca fiducia, il processo di selezione e inserimento è infinitamente più rapido. Reclutamento interno: principali vantaggi I benefici principali derivanti dalla pratica del reclutamento interno sono i seguenti: Vantaggi dunque a tutto tondo: per i dipendenti, per il clima aziendale e per l’azienda stessa. Reclutamento interno: come funziona Per un processo interno di reclutamento vincente sono necessarie alcune accortezze. Sebbene ciascun ambiente di lavoro sia diverso dall’altro, alcuni passaggi sono comuni per tutte le aziende: Reclutamento interno: minori tempi e risorse da investire Con una procedura di selezione interna hai la possibilità di abbattere i tempi di selezione saltando alcuni passaggi, come la richiesta della documentazione di rito e il controllo delle competenze di base del ruolo da ricoprire, trattandosi di persone già interne all’organizzazione. Soprattutto, utilizzando il reclutamento interno, diventa più facile ridurre i costi per la ricerca e selezione proprio di quelle posizioni per cui i costi sarebbero più alti. Molto banalmente, è più semplice promuovere qualcuno già presente in azienda ad un ruolo di maggiore responsabilità e colmare il ruolo lasciato vacante, che cercare ex-novo qualcuno con tutte le competenze necessarie che possa svolgere quel ruolo, ma solo dopo un lungo inserimento in azienda.  A parità di competenze, il reclutamento interno ti permette di avere un processo di selezione più rapido – perché ti trovi a scegliere tra persone che già conosci e di cui ti fidi – e soprattutto un inserimento nettamente più veloce in azienda, perché la persona sarà produttiva molto prima rispetto ad un nuovo inserimento. E idealmente, colmare il posto lasciato vuoto dalla persona promossa sarà più facile, perché sarà richiesta meno esperienza e competenze. Reclutamento interno: i software HR Per dare seguito alla procedura di reclutamento interno puoi affidarti a dei software HR come CP Job e CP Recruit sviluppati da Gruppo Centro Paghe, supporti pratici e funzionali per la corretta e veloce gestione delle risorse umane. Con l’uso di questi software puoi:

Employer branding che cos’è

Trovare nuovi talenti che siano pronti a essere assunti o che abbiano le competenze giuste è davvero diventato un problema per molte aziende. Proprio per questo le più lungimiranti stanno ricorrendo sempre più all’employer branding, una strategia per attirare i lavoratori e ridurre i costi di ricerca e selezione. Vediamo di che cosa si tratta. Che cos’è l’employer branding L’employer branding raggruppa tutte le tattiche che un’azienda può adottare per migliorare la visibilità e la reputazione e attirare nuovi talenti. La locuzione “employer branding” è stata introdotta nei primi anni Novanta e indica la reputazione che un’azienda è in grado di costruirsi come datore di lavoro. Se un tempo le strategie per affermarsi come buon datore di lavoro erano confinate al passaparola o alla pubblicità cartacea, con l’avvento del digitale si sono moltiplicati gli strumenti per accrescere la visibilità e la reputazione e con ciò attirare nuovi talenti. Vi sono due tipi di employer branding: Presentarsi come un buon datore di lavoro ha il pregio di attrarre nuovi lavoratori e al contempo di fidelizzare chi già si trova all’interno dell’azienda. Ma attenzione: quando si implementa una strategia di employer branding non bisogna solo fare promesse; bisogna attuare davvero quello che i futuri dipendenti si aspettano dalla tua attività. Employee value proposition: la proposta di valore della tua azienda Prima di adottare qualsiasi tipo di strategia di employer branding per distinguersi dagli altri competitor è opportuno stabilire in anticipo l’employee value proposition. Definire un’employee value proposition significa stabilire cosa offre l’azienda ai futuri candidati in cambio delle loro abilità e competenze. È l’insieme di fattori che dovrebbero spingere un lavoratore a desiderare di lavorare per noi, piuttosto che per la concorrenza. Il welfare aziendale rappresenta sicuramente una carta da giocare in questo senso. Ad esempio, nella proposta di valore si potrà stabilire un benefit per chi è disposto alle trasferte di lavoro, voucher per baby-sitter, buoni pasto, buoni acquisto, telefoni e computer aziendali, e via dicendo. L’employee value proposition è quindi il primo passo e solo quando sarà completa e chiara, si potranno realizzare tutte quelle strategie che mirano al miglioramento della visibilità e della reputazione del datore di lavoro. La comunicazione multicanale Il secondo step per pianificare la tua strategia di employer branding esterna è più lunga e complessa e si focalizza sulla comunicazione, utilizzando diversi strumenti e canali. Per le multinazionali più conosciute e apprezzate è sicuramente più semplice attrarre nuovi candidati, ma se sei il titolare di una piccola impresa e non riesci a trovare dei dipendenti devi assolutamente farti conoscere e quale migliore strumento se non il web? Per aumentare la tua visibilità puoi iniziare da una campagna di comunicazione capillare che si concentri su: Tutti i canali di comunicazione che ti abbiamo sopraelencato svolgono una duplice funzione: permetterti di aumentare la tua visibilità e al contempo accrescere la tua reputazione. Se pianifichi una buona strategia comunicativa, l’esito sarà sicuramente positivo in termini di attrazione di nuovi talenti, ma avrà anche ottimi sviluppi positivi sul tuo brand, come l’aumento dei clienti o la maggiore affidabilità per gli eventuali investitori. Quando parliamo di creare una strategia di comunicazione non ci riferiamo soltanto alla presenza sui siti web come Facebook, Linkedin, Indeed, Instagram, ecc., ma alla realizzazione di contenuti ad hoc che promuovono la tua employee value proposition. Ad esempio, su Linkedin vi è la possibilità di creare una vera e propria vetrina della tua attività dando spazio nel piano editoriale alle esperienze dei dipendenti. Sui più importanti siti di recruiting, le imprese possono creare delle pagine per attirare potenziali candidati, descrivendo nel dettaglio l’ambiente di lavoro, le possibilità di crescita, i benefit, le retribuzioni, la formazione e tutti gli altri aspetti che possono renderla appetibile e interessante. Eventi dal vivo e career day Per massimizzare i risultati della tua strategia di employer branding non devi usare esclusivamente il web, ma utilizzare anche i canali tradizionali che ti permettono di promuoverti come datore di lavoro e di conoscere dal vivo i potenziali candidati. Per attrarre nuovi candidati ti consigliamo di partecipare agli eventi di recruiting come i career day, dove potrai presentare il tuo business e incontrare i candidati per dei colloqui conoscitivi. Quando organizzi degli eventi o partecipi ai career day è importante che tu ti faccia accompagnare dai tuoi dipendenti, che sono il biglietto da visita migliore per la tua attività e che possono entrare subito in sintonia con i potenziali candidati. Le strategie che ti abbiamo indicato sono efficaci soprattutto per l’employer branding esterno, mentre per quello interno devi dimostrare di essere davvero un buon datore di lavoro, garantendo standard lavorativi elevati, sicurezza, stabilità e anche retribuzioni o benefit in linea con le capacità di ogni dipendente. A tutto il resto ci penserà il passaparola! I vantaggi dell’employer branding Ora che abbiamo visto come si può pianificare e realizzare una strategia di employer branding, vediamo quali sono i vantaggi che può portarti: Naturalmente, è fondamentale disporre di strumenti adatti per erogare ai dipendenti i benefit che gli stiamo promettendo e per gestire il pool di candidati alle posizioni lavorative. Servono dunque strumenti come piattaforme di welfare aziendale e software per la selezione del personale per gestire nel modo giusto i risvolti pratici. Creare una strategia di employer branding efficace può essere davvero difficile, ma nel lungo termine gioca un ruolo determinante nella sostenibilità della tua azienda.

Come funziona il congedo parentale?

Il congedo parentale è un periodo di astensione facoltativa dal lavoro concesso ai genitori per prendersi cura dei figli piccoli. Si tratta di una misura pensata per conciliare vita lavorativa e familiare, permettendo di dedicare tempo ed attenzioni alla crescita dei bambini nelle fasi iniziali senza contare che si riduce notevolmente lo stress e l’ansia dei neogenitori, fattori spesso collegati a un calo del rendimento professionale. In poche parole, il congedo parentale offre un sostegno fondamentale per bilanciare gli impegni genitoriali con quelli professionali. Quadro normativo di riferimento L’istituto del congedo parentale affonda le sue radici nella Legge 53/2000, poi integrata e ridefinita da altre disposizioni come il Testo Unico 151/2001 e i vari aggiornamenti apportati negli ultimi anni, tra cui spiccano la Riforma Fornero e il Decreto Legislativo 105/2022 che ne hanno ampliato diritti e tutele. Prima di tutto è da evidenziare come gli assi portanti del congedo siano stati preservati nel tempo: accessibilità per ogni figlio a prescindere dal loro numero, estensione anche ai padri lavoratori con mogli casalinghe o non coperte da tutela previdenziale, focus sull’importanza di un work-life balance a misura di famiglia. Destinatari e requisiti Lavoratori dipendenti Il congedo parentale spetta ai lavoratori dipendenti, sia a tempo determinato che indeterminato, purché vi sia un rapporto di lavoro attivo al momento della richiesta. La durata complessiva è di 9 mesi fra entrambi i genitori, di cui 3 mesi intrasferibili per ciascun genitore più ulteriori 3 mesi frazionabili tra madre e padre. L’indennità prevista è pari all’80% della retribuzione media giornaliera per 2 mesi (uno per genitore, non trasferibile) fino ai 6 anni di età del bambino e scende poi al 30% fino ai 12 anni. Lavoratori autonomi Anche i lavoratori autonomi hanno diritto al congedo parentale, ragion per cui risulta fondamentale informarsi per tempo sulle modalità di fruizione. È necessario astenersi effettivamente dal lavoro e dimostrare il versamento dei contributi Inps almeno per il mese precedente la richiesta. L’indennità ammonta al 30% della retribuzione convenzionale stabilita ogni anno dall’Inps in base alla categoria professionale. Modalità e tempistiche Durata Il congedo parentale può essere richiesto entro i 12 anni di vita del bambino. La durata complessiva è di 10 mesi conteggiando entrambi i genitori, estendibile a 11 mesi qualora il padre ne fruisca per almeno 3 mesi (anche in modo frazionato). Dal 2023, come accennato in precedenza, il limite massimo indennizzabile sale a 9 mesi contando sia i 3 mesi intrasferibili per ciascun genitore che i 3 mesi frazionabili fra entrambi. Frazionabilità Uno dei vantaggi del congedo parentale è l’elevata flessibilità. È possibile frazionare il periodo in giorni e ore. Le giornate di congedo vanno poi sommate al raggiungimento del limite convenzionale di 30 giorni. Superato il mese, si calcolano poi i mesi interi di congedo e i giorni residui. Questa modularità consente di venire incontro alle diverse necessità lavorative e familiari che possono emergere. Congedo parentale e altri istituti a confronto Differenze con maternità e paternità Mentre congedo parentale e paternità hanno natura facoltativa, il congedo di maternità è obbligatorio. Quest’ultimo garantisce 5 mesi complessivi di astensione fra gravidanza e post-parto, di cui 2 mesi precedenti la data presunta del parto e 3 successivi. L’indennità è pari all’80% della retribuzione, integrata al 100% da alcuni contratti collettivi. Il congedo di paternità obbligatorio ammonta invece a 10 giorni con retribuzione piena al 100%, con l’obiettivo di coinvolgere il padre fin dalle prime fasi di vita del neonato. Differenze con i permessi retribuiti I permessi retribuiti a ore previsti dalla Legge 53/2000 (Riposi giornalieri e congedi malattia per bambino) sono utilizzabili solo fino al primo anno di vita del bambino e non prevedono un’indennità economica ma la normale retribuzione. Si differenziano dunque per durata e natura del compenso. Senza contare che il congedo parentale consente periodi di assenza più lunghi e programmabili. Come richiedere il congedo Modulistica e documentazione necessaria La richiesta può essere inoltrata tramite il portale web dell’Inps, rivolgendosi a patronati o intermediari abilitati oppure chiamando il contact center dell’Istituto. Serviranno dati anagrafici propri e del figlio, oltre alla documentazione relativa al rapporto di lavoro attivo e al versamento dei contributi se lavoratori autonomi. Prima di tutto è fondamentale informare per iscritto il datore di lavoro della durata e modalità di fruizione scelte. La domanda va inviata prima dell’inizio del periodo di congedo richiesto. In caso di presentazione tardiva, l’indennità non verrà corrisposta per i giorni precedenti la data della richiesta ma solo a partire dal giorno di invio della stessa. Meglio dunque muoversi con un certo anticipo comunicando per tempo le proprie intenzioni al datore di lavoro. Gestione del congedo in azienda Impatti organizzativi La fruizione del congedo parentale può comportare un certo impatto organizzativo in azienda legato alla temporanea assenza di personale. Diventa quindi importante pianificare attentamente turni e attività, distribuendo diversamente i carichi di lavoro e valutando soluzioni quali straordinari, nuove assunzioni a termine o rimodulazione dei flussi produttivi. Buone pratiche di gestione delle risorse umane prevedono una programmazione tempestiva insieme al lavoratore, così da ridurre al minimo eventuali ricadute operative. Comunicazione con il lavoratore La chiave per gestire senza intoppi il congedo parentale risiede nel dialogo e nella collaborazione con il dipendente/collaboratore interessato. Ricevuta la comunicazione della volontà di avvalersi del diritto, il datore di lavoro è tenuto ad informare circa le modalità di fruizione e i limiti temporali previsti. Così come è fondamentale supportare il neogenitore sia prima che dopo il periodo di congedo, ad esempio garantendo una ripresa graduale dell’attività lavorativa senza eccessivi stress. Prospettive future Negli ultimi anni le politiche a favore della genitorialità e della conciliazione famiglia-lavoro hanno conosciuto una felice evoluzione. Il progressivo allungamento della durata dei congedi e l’aumento delle relative indennità economiche confermano l’impegno del legislatore verso una società più inclusiva, che non costringa a dolorose scelte fra carriera e maternità/paternità. Ci sono buoni motivi per ritenere che questo trend positivo non si esaurirà a breve ma anzi proseguirà con nuovi interventi volti a rafforzare i diritti di mamme e papà lavoratori. Ed è

Aspettativa non retribuita: che cos’è e come funziona

L’aspettativa non retribuita, talvolta chiamata anche congedo non retribuito, è un periodo di pausa dal lavoro durante il quale il dipendente si assenta senza percepire la retribuzione. Il lavoratore ne fa esplicita richiesta al datore per motivi personali previsti dalla normativa vigente e, nonostante l’assenza dal servizio, mantiene il proprio posto di lavoro e il rapporto di lavoro. La caratteristica principale sta nel fatto che il lavoratore non percepisce alcun compenso economico per tutta la durata dell’aspettativa. Quest’ultima si differenzia quindi nettamente dall’aspettativa retribuita, dove invece la retribuzione continua ad essere corrisposta anche in costanza di assenza dal lavoro.  In entrambe le situazioni il lavoratore ha comunque diritto alla conservazione del posto di lavoro per l’intero periodo di aspettativa richiesto. Ciò significa che il datore di lavoro non può licenziare il dipendente solamente perché si è assentato dal lavoro facendo ricorso all’istituto dell’aspettativa. Quando si può richiedere l’aspettativa non retribuita Le ragioni che consentono ai lavoratori dipendenti di richiedere periodi di aspettativa non retribuita sono diverse e ben specificate dalla legge. Analizziamo nel dettaglio i motivi più ricorrenti. Aspettativa non retribuita per gravi motivi familiari La legge 53/2000 e il decreto ministeriale 278/2000 riconoscono espressamente la possibilità per i lavoratori dipendenti di usufruire di periodi di aspettativa non retribuita per gravi motivi familiari. La durata massima complessiva è di 2 anni, anche frazionati, nell’intero arco della vita lavorativa. I gravi motivi familiari possono riguardare direttamente la persona del lavoratore oppure i suoi familiari e affini entro il terzo grado di parentela, come il coniuge, i figli, i genitori, i nonni, gli zii e via dicendo. Per familiari si intendono anche il convivente o il parte dell’unione civile, se la convivenza risulta da certificazione anagrafica. Le situazioni che vengono considerate “gravi motivi” sono ad esempio: l’assistenza per malattie o disabilità di un familiare, impegno a seguito del decesso di un congiunto, altre condizioni di grave disagio personale in cui versa il dipendente, ad eccezione della malattia. Aspettativa non retribuita per motivi personali Oltre ai gravi motivi familiari, si può ottenere l’aspettativa non retribuita anche per ragioni personali del lavoratore dipendente. Tali motivi però non devono riguardare situazioni di malattia o maternità, per le quali sono previsti specifici istituti e tutele. I motivi personali possono essere i più disparati: periodi di volontariato, attività formative extra-lavorative, situazioni di tossicodipendenza propria o di un familiare, ed altri motivi non meglio specificati rimessi alla discrezionalità del datore di lavoro. I contratti collettivi di settore possono anche prevedere ulteriori ipotesi tipiche di aspettativa non retribuita per esigenze del dipendente. Aspettativa non retribuita per tossicodipendenti e loro familiari Un caso specifico di aspettativa per motivi personali è quello riguardante i lavoratori affetti da tossicodipendenza e i loro familiari. L’articolo 124 del DPR 309/1990 consente infatti di ottenere periodi di aspettativa non retribuita, fino ad un massimo di 3 anni complessivi, al fine di partecipare a programmi terapeutici e riabilitativi organizzati presso i servizi sanitari delle ASL. Per avvalersi di questa particolare aspettativa è necessario che lo stato di tossicodipendenza sia stato accertato dal SERT competente. Anche in questo caso, i contratti collettivi possono prevedere requisiti o modalità specifiche di accesso all’aspettativa. Aspettativa per formazione professionale Un periodo di aspettativa non retribuita può inoltre essere richiesto, per una durata massima di 11 mesi complessivi, dai lavoratori con almeno 5 anni di anzianità in azienda per motivi di studio e formazione professionale. Nel dettaglio, i motivi validi per accedere all’aspettativa formativa sono: il completamento della scuola dell’obbligo, il conseguimento di un diploma di scuola superiore o di un titolo accademico, la partecipazione ad attività formative diverse da quelle eventualmente già finanziate dal datore di lavoro. Anche in questo caso, i contratti collettivi possono specificare le modalità di richiesta ed eventuali limiti numerici di dipendenti che possono simultaneamente avvalersi di questo tipo di aspettativa. Aspettativa per cariche pubbliche Una forma di aspettativa obbligatoria è quella prevista dalla Legge 300/1970 per i lavoratori del settore privato che vengono eletti a cariche politiche e pubbliche. Hanno quindi diritto all’aspettativa non retribuita per l’intera durata del mandato coloro che ricoprono, a titolo esemplificativo, le cariche di: Analogamente, anche i dipendenti nominati a ricoprire cariche in enti pubblici locali hanno diritto ad assentarsi dal lavoro per l’aspettativa. Aspettativa dal lavoro per cariche sindacali I lavoratori del settore privato investiti di cariche sindacali a livello provinciale o nazionale hanno diritto, per tutta la durata del loro mandato, ad assentarsi dal lavoro fruendo dell’aspettativa non retribuita. L’aspettativa può essere fruita anche in modalità frazionata, come confermato dalla Cassazione. Come richiedere l’aspettativa non retribuita Vediamo ora in dettaglio qual è l’iter da seguire per avanzare correttamente richiesta di aspettativa non retribuita al datore di lavoro. Il lavoratore interessato deve presentare formale domanda all’azienda, indirizzandola tipicamente all’ufficio personale o alle risorse umane. Nella richiesta vanno specificati tutti gli elementi essenziali, quali: Se previsto dal contratto collettivo applicabile, vanno seguite le particolari procedure stabilite da quest’ultimo. Ad esempio, in caso di gravi motivi familiari, il datore deve fornire riscontro entro 10 giorni, oppure entro 3 giorni per i casi urgenti. Documentazione necessaria Unitamente alla domanda va prodotta idonea documentazione che comprovi l’effettiva sussistenza della motivazione addotta. Ad esempio, per le aspettative familiari, certificati medici o di decesso. Per quelle formative, copia dell’iscrizione al corso di studi. Così da consentire al datore le necessarie verifiche. In mancanza di previsioni del contratto collettivo, il datore di lavoro deve in ogni caso rispondere per iscritto alla richiesta di aspettativa entro 10 giorni. Può rifiutare l’aspettativa solo per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive. Aspetti contrattuali e previdenziali Analizziamo ora quali sono le principali ricadute dell’aspettativa non retribuita su alcuni profili del rapporto di lavoro. Conservazione del posto di lavoro Come già accennato, per tutto il periodo di aspettativa non retribuita il lavoratore ha diritto alla conservazione del proprio posto di lavoro. Il datore di lavoro non può quindi licenziarlo per il semplice fatto che si è assentato fruendo dell’aspettativa. Divieto di svolgere altre attività lavorative In linea generale, durante l’aspettativa non

Welfare aziendale: cos’è

Il welfare aziendale è un approccio che permette di aumentare la produttività e il benessere all’interno dell’impresa, rafforzando la collaborazione tra le varie parti e migliorando le prestazioni dell’azienda. Vediamo, quindi, che cos’è il welfare aziendale, perché è opportuno sviluppare un piano aziendale e quali sono i principali vantaggi di cui beneficiare per il dipendente e l’impresa. Che cos’è il welfare aziendale Con il termine welfare aziendale si vuole indicare una serie di attività e iniziative prese in considerazione dal datore di lavoro per migliorare l’ambiente lavorativo e permettere al proprio dipendente di avere diversi vantaggi in termini di benessere. Se il lavoratore sta bene e si trova proprio agio sul posto di lavoro, ci sono indubbi vantaggi anche per l’impresa che vede migliorare la produttività e la qualità dei propri prodotti e servizi. Da notare che con questo termine si vuole far riferimento all’opportunità di migliorare la qualità di vita del lavoratore anche al di fuori degli orari di lavoro. Infatti, tra le varie pratiche e attività che possono essere messe in atto c’è quella di aumentare il potere di acquisto delle famiglie dei lavoratori. Non c’è un metodo univoco per migliorare il welfare aziendale e di conseguenza il rapporto tra datore di lavoro e lavoratore, ma una serie di soluzioni che devono essere prese in considerazione rispetto alle esigenze dei dipendenti e del contesto sociale. Ci sono tante attività che potrebbero trovare la soddisfazione del tuo collaboratore come, ad esempio, prevedere il rimborso delle spese sostenute dell’attività lavorativa oppure aumentare il salario quando si raggiunge un determinato livello di produzione. Fare welfare aziendale può significare anche anticipare l’erogazione di determinati servizi, mettere a disposizione dei benefit aziendali come i buoni pasto oppure degli incentivi per le spese necessari per la mobilità . O ancora coprire le spese per viaggi personali, tasse universitarie, spese mediche. Come funziona il welfare aziendale Per poter mettere in atto tutte queste cose che migliorano l’ambiente lavorativo e creano un rapporto particolare tra il dipendente e il datore di lavoro, è necessario sviluppare un apposito piano di welfare aziendale. Tutto parte dall’analisi delle esigenze dei tuoi dipendenti, magari proponendo loro dei questionari nei quali possono indicare alcuni miglioramenti delle attività lavorativa e di vantaggi che potrebbero dimostrarsi importanti per innalzare il livello della qualità di vita. Ad esempio, potresti prendere in considerazione di proporre dei buoni benzina e offrire varie forme di divertimento e di accesso a premi rispetto a livello di produttività raggiunto. Le opportunità non finiscono qui perché potresti pensare di attivare promozioni e convenzioni per avere accesso a beni e servizi che vengono proposti da altre aziende partner. Dopo aver analizzato tutte queste possibili esigenze del dipendente e della sua famiglia devi individuare, per l’appunto, un partner che ti permetta di introdurre questi servizi. Il tutto viene gestito attraverso un’apposita piattaforma welfare necessariamente conforme alle normative vigenti e che consente di avere flessibilità e piena autonomia per il dipendente. L’ultima fase è sostanzialmente quella in cui si va ad annunciare e comunicare ai dipendenti l’attivazione del piano di welfare aziendale che permetterà loro di avere delle migliorie rilevanti per quanto riguarda la loro vita. Fringe benefit a Flexible benefit È possibile suddividere i benefit che puoi riconoscere ai tuoi lavoratori in due principali categorie: fringe benefit e flexible benefit. I fringe benefit rappresentano una forma di compenso aggiuntivo che il datore di lavoro può scegliere di corrispondere liberamente ad un determinato dipendente. Non si tratta di un compenso in denaro ma piuttosto delle concessioni che migliorano la qualità di vita come un telefono cellulare aziendale, la macchina aziendale in concessione privata, un personal computer e tanto altro. Da un punto di vista normativo questi benefici vengono regolati mediante il contratto individuale stipulato con l’azienda e – oltre una certa soglia – fanno parte del reddito del dipendente. I flexible benefit sono invece i beni oppure i servizi che vengono erogati ai dipendenti affiancandoli al reddito. Possono essere frutto di una libera scelta da parte dell’azienda, esito di un accordo sindacale o ancora normati dai CCNL. In ogni caso devono essere corrisposti ad un’intera categoria di dipendenti (se non a tutti), sono esentasse e non concorrono a formare reddito da lavoro dipendente. Abbiamo già parlato di alcune soluzioni come, ad esempio, l’asilo nido oppure la possibilità di offrire gratuitamente delle polizze di assicurazioni sanitarie e di integrare ulteriormente la previdenza con prodotti complementari. C’è poi la possibilità di effettuare un rimborso spese per i costi da sostenere per raggiungere la sede dell’attività e tanto altro. I vantaggi del welfare aziendale La domanda che certamente ti stai ponendo è: quali sono i reali vantaggi del welfare aziendale per la tua impresa? Un primo aspetto a cui abbiamo già annunciato, riguarda il fatto che un dipendente premiato dalla propria azienda è portato ad essere più affidabile e produttivo e questo significa migliorare la qualità dei servizi ai prodotti che offri ai tuoi clienti. In aggiunta se i tuoi dipendenti si trovano bene con la tua politica, questo sarà il miglior biglietto da visita per poter attrarre nuove risorse umane che potrebbero permetterti di fare un ulteriore salto di qualità per migliorare ulteriormente la tua presenza sul mercato e staccare i tuoi competitor. Ne beneficerà anche l’immagine dell’azienda che verrà vista con altri occhi anche dai potenziali clienti che la prenderanno in considerazione più seriamente per le proprie esigenze. Insomma, investire su un piano di welfare aziendale ti permette di migliorare l’ambiente lavorativo, creare armonia con i tuoi dipendenti e aumentare la visibilità e competitività sul mercato di riferimento.

Rimborsi spese: cosa sono e come funzionano

Da un punto di vista prettamente tecnico si parla di rimborsi spese quando c’è un ulteriore contributo di natura economica messo a disposizione in busta paga dal datore di lavoro a un proprio dipendente per una trasferta oppure per altre spese che lo stesso lavoratore ha dovuto sostenere per espletare l’attività. Sono previste tre diverse tipologie di rimborso spese in particolare quella analitica, forfettaria e mista. La scelta della tipologia è a totale discrezione dell’azienda. In funzione di questo, c’è anche da tenere conto di una specifica tassazione e della possibilità di portare in deduzione i costi. Per potersi occupare al meglio del bilancio di un’attività d’impresa, è dunque indispensabile conoscere nei minimi dettagli tutto quello che riguarda i rimborsi spesa e il loro funzionamento. Infatti, essendo dei costi, necessariamente andranno a incidere sul bilancio mensile e su quello annuale di una azienda. Ci sono delle questioni di natura normativa che devono essere rispettate e l’erogazione deve avvenire in determinate condizioni soprattutto se ci sono lavoratori che svolgono la propria attività normalmente al di fuori della sede aziendale. Come funzionano i rimborsi spese Per gestire correttamente i rimborsi spese, è indispensabile capirne il funzionamento. Parliamo di un qualcosa che è legato all’attività lavorativa che il dipendente gestisce al di fuori della sede aziendale o, per meglio dire, in trasferta. Semplicemente si parla di trasferta quando il lavoratore svolge l’attività professionale al di fuori della sede naturale. Non a caso quando si sottoscrive un contratto di lavoro con un’azienda, tra le varie questioni tecniche ed economiche riportate c’è anche la definizione in maniera precisa della sede lavorativa. In base all’indirizzo vengono considerate trasferte tutte quelle attività che vengono effettuate al di fuori di tale sede. Può succedere anche che nel contratto non venga riportata la sede soprattutto se si svolge un ruolo che prevede l’esigenza di doversi recare in diverse sedi come quello dell’amministratore. In questo caso per stabilire se un dipendente ha diritto o meno a un rimborso spese, è necessario far riferimento al domicilio fiscale dell’azienda. In base a questo indirizzo viene calcolata la trasferta e quindi il rimborso. Le spese che possono essere rimborsate Siccome si parla di rimborso, è previsto che il dipendente sostenga delle spese durante l’espletamento dell’attività al di fuori della sede aziendale e che queste poi vengono elargite dall’azienda stessa attraverso la busta paga. Tuttavia, c’è una disciplina che regola le tipologie di spese che possono essere rimborsate e che sono quindi attinenti all’attività. Parliamo di una compensazione economica a favore del dipendente che può essere prevista soltanto se ci sono delle specifiche esigenze. In particolare, il rimborso è previsto per i costi sostenuti per il carburante, per trovare e godere di una sistemazione che permetta vitto e alloggio. Poi ci sono i pedaggi autostradali ed eventualmente anche il noleggio dei veicoli che nella stragrande maggioranza dei casi viene presa in considerazione da un’azienda a meno che non si disponga di un veicolo aziendale. Possono essere contemplate anche spese necessarie per la gestione dell’utilizzo del veicolo ma anche per acquisti che vengono effettuati in trasferta e sempre collegabili all’attività che si sta svolgendo. Insomma, una situazione che può differire da caso a caso ed è per questo che non c’è stata una standardizzazione dei rimborsi spesa soprattutto per quanto concerne il tetto massimo che per legge non c’è. Chiaramente un’azienda non può permettersi di effettuare spese illimitate ma deve comunque fissare un budget da mettere a disposizione al proprio dipendente per non sforare determinati paletti. Le differenze tra le varie tipologie di rimborso spese Ci sono diverse questioni da affrontare che riguardano il rimborso spese e che lo rendono meno banale di quanto si possa pensare. Essendo un’aggiunta allo stipendio, c’è un surplus sulla busta paga che risulterà più alta. Ma come si gestisce il tutto da un punto di vista fiscale? In primo luogo, bisogna distinguere tra due situazioni. La prima riguarda i rimborsi per le trasferte che vengono effettuate all’interno del territorio comunale e la seconda rispetto alle trasferte al di fuori della zona comunale. Nel primo caso le spese rimborsate contribuiranno ai fini fiscali a fare cumulo sul reddito imponibile per cui bisognerà dichiararle e pagare le relative tasse. Invece, quando si tratta di rimborsi che sono stati previsti per l’attività che viene effettuata al di fuori dal territorio comunale, queste sono esenti fiscalmente entro determinati limiti. L’impresa può scegliere tra diverse soluzioni per gestire il rimborso e in particolare pensare al rimborso spese analitico, a quello forfettario oppure al sistema misto. Il rimborso spese analitico È un sistema molto utilizzato perché si basa semplicemente sul concetto che per ottenere il rimborso, il dipendente deve presentare dei documenti fiscali che attestino la spesa sostenuta. Nel caso specifico deve compilare la nota spese per riportare i vari esborsi e soprattutto le causali. Per giustificare le spese, possono essere allegate le fatture elettroniche intestate al lavoratore oppure all’azienda, le ricevute che fanno riferimento alle spese sostenute per il vitto e l’alloggio oppure i biglietti per utilizzare trasporti pubblici. Naturalmente rientra nella documentazione anche lo scontrino, le ricevute per il carburante ma anche pedaggi autostradali e altre tipologie di documenti fiscali che sono collegati ai costi sostenuti per espletare l’attività. Le aziende scelgono spesso questo sistema perché gli importi non sono imponibili. Infatti, come abbiamo detto, tutte le spese effettuate per spostarsi al di fuori del comune in cui ha sede l’azienda e per il vitto e l’alloggio, per tante altre persone non fanno cumulo in termini di reddito imponibile. Se invece si tratta di spese non documentate, allora il rimborso è ugualmente previsto con un limite giornaliero di deduzione fiscale che attualmente è di 15,49 euro per le trasferte all’interno del territorio nazionale e di 25,82 euro per quelle al di fuori dei confini italiani. Il sistema forfettario Come si può facilmente evincere dal nome, si tratta di un pagamento che il datore di lavoro effettua attraverso una somma a forfait che viene pattuita prima della trasferta. Il calcolo viene effettuato giornalmente

Knowledge management: cos’è è perché è importante

Per crescere le aziende devono acquisire, archiviare, condividere e gestire efficacemente dati e informazioni al fine di centrare l’obiettivo prefissato. Fare in modo che i dipendenti possano accedere facilmente al fattore conoscenza, li rende maggiormente produttivi con conseguenti benefici dell’azienda stessa. Questo aspetto dell’organizzazione aziendale prende il nome di knowledge management, cioè gestione della conoscenza. A tale proposito vediamo cos’è, perché è importante e quali vantaggi concreti può offrire. Cos’è il knowledge management? Il knowledge management può essere definito un processo di incremento, organizzazione e di totale condivisione della conoscenza da parte di membri di un’azienda al fine di renderla competitiva e in grado di incrementare gli utili. Il knowledge management si rivela prezioso poiché permette di fornire al personale di un’azienda le giuste informazioni in modo che possa agire in sinergia, avvalendosi delle tecnologie più innovative. Condividere metodologie, know-how e strumenti permette ad un’azienda di performare nettamente meglio rispetto alle proprie concorrenti, abbattendo i tempi di onboarding e – tangenzialmente – migliorando anche il clima aziendale. L’informazione è potere e se vi è una asimmetria informativa all’interno dell’azienda, cioè l’informazione è nelle mani di alcuni, si prefigura un monopolio nella gestione dei processi. In questo modo alcune figure tengono in scacco l’azienda che diventa a quel punto succube del lavoratore che potrebbe da un lato dettare le “sue regole”, destabilizzando la struttura gerarchica, dall’altro potrebbe mettere in pericolo l’azienda in caso di dimissioni. Perché il knowledge management aziendale si rivela importante? Approfondiamo questi vantaggi. Optare oggi per un knowledge management ben strutturato e implementato da persone esperte, significa ridurre costi e tempi lavorativi. Gestire efficacemente i dati e condividere metodologie di lavoro consente ad esempio ai team di prendere decisioni in modo più consapevole e rapido, riducendo significativamente i tempi di discussione e facendo in modo che – partendo da una base comune – anche la decisione sia maggiormente condivisa. Se poi alla metodologia, si associa un vero e proprio software di knowledge management i vantaggi aumentano in maniera esponenziale. Diventa possibile ottenere per un’azienda una migliore visione analitica a riguardo di vari problemi, minimizzando di gran lunga gli errori specie quando il numero di dati è ampio. Per fare qualche esempio – un software di knowledge management consente di ottenere informazioni automatizzate e molto più accurate, anche se i dati posseduti sono tantissimi e magari accorpati in testi, pagine web, e-mail oppure inseriti in software e difficilmente rintracciabili manualmente. In questo frangente è sufficiente soltanto utilizzare una parola chiave per filtrare tutte le informazioni fino a raggiungere quella di maggior rilevanza. Un altro valido motivo per cui vale la pena considerare l’implementazione di un software per il processo di knowledge management, è riscontrabile nel fatto che quest’ultimo consente ad un’azienda di gestire le informazioni in modo più rapido e innovativo con conseguenti vantaggi per l’attività che svolge. Presupposti per un buon knowledge management Per implementare efficacemente il knowledge management e sfruttarne gli aspetti strategici che garantisce, è tuttavia importante intervenire a monte su alcuni fattori; infatti, deve essere strutturato sull’effettiva consistenza dei processi aziendali e degli obiettivi che si intendono raggiungere e soprattutto individuare quelli in grado di fornire l’ambito successo. Il knowledge management è una tecnologia che consente di eseguire un processo analitico ed ottimizzato a tutte le aziende che intendono gestire un gran numero di informazioni e dati. Per sfruttarlo al meglio è quindi fondamentale affidarsi nelle mani di esperti del settore, ossia ai knowledge manager. Questi ultimi saranno in grado di definire strumenti e strategie vincenti per la condivisione di know-how, metodologie e dati – che si tratti di mail, database e via dicendo.